Cos'è la libertà di espressione? È la facoltà di dire tutto ciò che si vuole senza il benché minimo senso di responsabilità? Oppure consiste nell’esprimere il proprio parere senza avere il terrore di essere uccisi per le proprie idee?
Sicuramente la libertà di espressione è figlia della democrazia. C’è chi ha avuto la fortuna di nascere in uno Stato che ha la libertà come stendardo; c’è chi invece ha dovuto combattere – o peggio, sacrificare la propria vita – per avere la possibilità di usare le parole come veicolo di idee e ideali. Il “problema” di nascere in uno Stato libero e democratico risiede nella mancata consapevolezza della fortuna che si possiede e nel sottovalutare la sua importanza. Kurt Cobain diceva: “Non apprezzi mai le cose che hai finché non le perdi”. È vero, la conoscenza del nostro passato può sicuramente ampliare la propria visione delle cose, ma non può sostituire l’esperienza diretta sulla propria pelle. E certe cose si capiscono solo in superficie finché non si vivono, ahimè, in prima persona.
In questi giorni si è parlato tanto di libertà di stampa e di espressione. I recenti avvenimenti si sposano perfettamente con due produzioni letterarie (di cui una trasposizione cinematografica) che ho avuto modo di apprezzare proprio negli ultimi giorni. Si tratta dei libri 1984 di George Orwell e del film Sostiene Pereira (regia di Roberto Faenza, tratto dall’omonimo libro di Antonio Tabucchi).
Leggendo il libro e guardando il film ho provato un’angoscia non indifferente, e volevo condividere con voi il mio punto di vista, estraneo a qualsiasi tentativo (che nel mio caso sarebbe fallimentare) di critica letteraria e cinematografica. Cercherò di intersecare le due opere durante la mia riflessione.
Sostiene Pereira vede come protagonista il dottor Pereira, giornalista della sezione letteraria del Lisboa. Personalità inquieta, legata al passato e alla morte della moglie, egli sfoga la sua sofferenza nella consumazione smodata di limonate e zuccheri. Ex giornalista di cronaca – specializzatosi da poco in ciò che considera la sua vera passione, la letteratura – resta fuori da tutto ciò che riguarda la politica e il conseguente schieramento da una parte piuttosto che da un’altra. Questo modus vivendi può essere giustificato dal periodo storico a lui contemporaneo, impregnato di fascismo e di costrizioni morali e ideologiche. Il suo quindi è un profondo timore delle conseguenze delle sue scelte, ma questa sua apparente neutralità lo porta a una sofferenza interiore, che dapprima si scontrerà con personalità rivoluzionarie, poi verrà esteriorizzata con l’aiuto di un medico, che lo aiuterà ad effettuare un cambio di direzione.
È interessante sottolineare come i diversi fari morali del protagonista non siano prevalentemente giornalisti o intellettuali, bensì gente comune. Emmanuel, un cameriere, Marta e Montero, due giovani sovversivi – Montero in realtà è un abile scrittore di necrologi e aspirante giornalista – e una donna ebrea incontrata su un treno accendono la miccia per una riflessione che perde tempo ad arrivare, ma che esplode con tutta la sua forza: non ci si può astenere dal far politica poiché la vita stessa lo è. Tantomeno può farlo un giornalista che, in quanto tale, deve guardare dallo spioncino della porta del mondo e trascrivere nero su bianco la sua visione in maniera oggettiva ma non per questo totalmente impersonale.
Pereira riflette su ciò che gli sta accadendo intorno. Comprende che la guerra non è così lontana, che riguarda tutti, e non si può far finta di ignorarla, come fa il suo autista, per esempio, solo perché la bomba non è ancora esplosa dappertutto.
A questo punto del romanzo entra in gioco un altro personaggio, decisivo per una presa di posizione attiva del dottor Pereira: il dottor Cardoso, medico che lo prende in cura per via della sua fragile salute e dei problemi cardiaci dettati dall’obesità. Attraverso l’esposizione della teoria della confederazione delle anime dei medici-filosofi Théodule Ribot e Pierre Janet, il dottor Cardoso non fa altro che estrarre ciò che in Pereira è già esistente e in subbuglio: la coscienza e il suo senso di responsabilità.
Mi riaffiorano le parole di un giovane ragazzo partenopeo, che ha indossato i panni di Carmine di Salvo, entrando nel giro di poco tempo nei cuori di parecchi giovani (e diversamente giovani) italiani: sto parlando dell’attore Massimiliano Caiazzo. Anni fa ha pubblicato un post su Instagram che ancora ben ricordo, quelle parole mi hanno particolarmente colpita: “Renditi conto di quello che ti succede intorno. Pensi di non poter far nulla? Pensi di essere impotente? No. Hai una voce USALA”.
Oggi, come ieri, agli artisti viene affidato questo delicatissimo compito: metterci la propria faccia per il bene di tutti. Perché le parole non sono solo segni e inchiostro su carta o click incessanti e casuali su una tastiera qualsiasi di un pc qualsiasi. Le parole hanno un potere immenso, e chi vuole detenere tra le proprie mani IL potere lo sa bene. Come scriveva George Orwell in 1984, il Partito (inteso nel libro come unica forza politica in un sistema dittatoriale) inculcava “la paura di avere opinioni personali e quasi inducendovi a negare l’evidenza dei vostri stessi sensi”.
Anche il direttore del Lisboa sa bene che avere il controllo delle parole vuol dire avere il controllo delle menti.
In Sostiene Pereira viene mostrata in maniera schietta la sottile manipolazione della mente umana perpetrata attraverso la manipolazione stessa dell’arte: il cinema, la musica, il teatro, la pittura, tutto dev’essere alla mercé di uno spirito patriottico imposto.
In 1984 i “due minuti d’odio” prevedono la visione di immagini del nemico comune, l’Eurasia, che diventa il capro espiatorio e vittima di atti violenti compiuti dagli stessi spettatori.
Per quanto possa sembrare qualcosa di distante dalla realtà, questa non è finzione, e non è così lontana da noi. Poco importa se durante il Fascismo o qualsiasi altra dittatura non venisse dichiarato a gran voce “La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza” (George Orwell, 1984, pag. 8): poco importa se le parole usate erano diverse, perché l’ideologia alla base resta la stessa. E non si può oggigiorno sostenere che quest’aberrante realtà sia distante da noi. Non ricadiamo, come ha fatto l’autista del dottor Pereira, in quest’assurda illusione.
Facciamo invece come Monteiro Rossi, che ha scritto un necrologio sul grande poeta spagnolo Garcìa Lorca, denunciando la sua prematura scomparsa avvenuta, per altro, in circostanze oscure:
Ricordiamoci più spesso le parole di Edmund Burke: “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione”. Se c’è qualcosa che non ci sta bene diciamolo, urliamolo se necessario, ma sappiamo usare in maniera consapevole la nostra libertà, senza sfociare in estremismi che tutto sono tranne che il manifesto della libertà.
La Libertà risiede nella libertà di dire che due più due fa quattro. Se questo è garantito, tutto il resto ne consegue naturalmente.
George Orwell, 1984, pag. 85
Articolo a cura di Adriana Cinardo
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